di LINO SPADACCINI
In questi ultimi anni molti delitti
passionali sono saliti alla ribalta della cronaca. Grazie alla televisione ed alla
carta stampata ne abbiamo seguito le vicende, le indagini ed i processi, appassionandoci
e schierandoci tra i colpevolisti o gl’innocentisti. Molti sono gli omicidi rimasti
impuniti e avvolti nel mistero, mentre in altri casi si è giunti fino alla
sentenza di condanna, ma non senza lasciare dubbi e ombre.
Oggi vogliamo soffermarci sul primo
omicidio passionale del dopoguerra, che ha destato molto scalpore ed ha
lasciato più di qualche dubbio: il caso Graziosi. Un caso di uxoricidio che,
durante il dibattimento del lungo processo, ha accesso i riflettori anche sulla
nostra città.
Ma andiamo per ordine.
Arnaldo Graziosi, 32 anni, musicista
affermato, venne condannato per aver ucciso, con una pistola automatica Beretta
calibro 9, la moglie Maria Cappa, di 24 anni, la mattina del 21 ottobre 1945 nella
stanza della pensione Villa Igea a Fiuggi. Insieme alla coppia era presente
anche la figlia di tre anni, Andreina, che dormiva tranquillamente nel letto
dei genitori senza accorgersi di nulla.
Gli elementi al vaglio degli inquirenti
apparvero subito chiari, mentre il racconto del musicista, che dichiarava il
suicido della moglie, faceva acqua da tutte le parti. Come mai il marito non
urlò in seguito al gesto della moglie? Come mai non fece nulla per soccorrere
la moglie? Come mai prima di dare l’allarme si lavò e vestì in maniera
impeccabile? Come mai davanti al proprietario dell’albergo, intento a potare le
rose, rimase impassibile, riferendo che la moglie si era suicidata ed aveva
lasciato un biglietto, aggiungendo poi "Questo giardino è veramente bello?". Troppi dubbi. Sul foglio
privo di firma lasciato dalla moglie sul cuscino era scritto: «Quando leggerete queste righe il
mio martirio sarà finito. Troppo a caro prezzo sto pagando la sola leggerezza
della mia vita. Per mia figlia, per quelli che mi amano io debbo andarmene. Ora
sono stanca mortalmente: basta con tutto. Desidero che tutti quelli che mi
conoscono non sappiano di questo e abbiano sempre un buon ricordo di Maria».
Sin dall’inizio gl’inquirenti ipotizzarono
il delitto passionale, anche perché destarono sospetti alcune mosse strane del
Graziosi: durante i rilievi delle forze dell’ordine, l’uomo si allontanò per
alcuni minuti e si giustificò affermando che era andato in una chiesa vicina
per chiedere ai frati una messa in suffragio della moglie. Solo in seguito alle
insistenti domande l'uomo ammise di aver telefonato ad
una sua studentessa, una certa Anna Maria Quadrini, di anni 18, la sua
probabile amante. Il musicista si difese affermando di aver disdetto un concerto
che avrebbe dovuto tenere dopo due giorni insieme alla sua allieva. Più tardi,
in seguito alle indagini, venne ritrovato il diario della giovane studentessa, dove
dichiarava il suo amore per il maestro.Lo stesso Graziosi fu costretto, almeno
parzialmente, a confermare le illazioni: "Ammetto che i rapporti con la Quadrini siano arrivati a qualche bacio,
ma non sono andati mai più in là. Si trattava di amicizia basata soprattutto
sui comuni ideali artistici".
Il musicista venne arrestato ed iniziò
un seguitissimo processo che appassionò tutti gli italiani attraverso la carta
stampata, la radio e i cinegiornali dell’epoca.
Arnaldo Graziosi si dichiarò sempre
innocente, sostenendo che la moglie si era suicidata perché lacerata dai sensi
di colpa per aver contratto la sifilide durante una relazione prematrimoniale,
e per averla trasmessa al marito ed alla figlia.
"Conobbi Maria Cappa in Conservatorio", affermò il pianista durante il processo,
"e iniziai con lei un idillio raro e
bellissimo. Una sera, mentre stavamo in un portone ad aspettare che passasse la
pioggia Maria mi confessò bruscamente che aveva avuto rapporti con un uomo
conosciuto al mare. Rimasi commosso della sua sincerità: non volli indagare; la
sposai il 10 febbraio 1942. Andammo ad abitare con i miei genitori, che a Roma
hanno un negozio di oreficeria. Dopo la nascita della nostra bambina, appresi
che mia moglie era ammalata di lue e che anch'io e la piccina ne eravamo
contagiati. Una sera, tra i singhiozzi, Maria mi disse che era stata infettata
dall'uomo conosciuto prima di me e morto appunto di lue. Avvenne allora tra di
noi un inevitabile distacco, anche se apparentemente i nostri rapporti
restarono normali. Debbo aggiungere", precisò Graziosi in merito al
possesso della pistola, "che usavo
tenere una pistola, perché i miei genitori avevano l'abitudine di portare ogni
sera nell'appartamento i valori più importanti del negozio".
Secondo la
difesa dell’imputato, nell’agosto del 1935, due cacciatorpediniere, la "Da
Mosto" e la "Giovanni Da Verrazzano", approdarono sulla costa
vastese per un giorno e mezzo e venne organizzato un ballo in onore degli
ufficiali, dove pare abbia partecipato anche la giovane Maria Cappa, a quel
tempo fidanzata col Graziosi. Una testimone riferì di aver udito un ufficiale
che si vantava di aver fatto crollare a Vasto la virtù di Maria Cappa, sia pure
in un fugace incontro.
Ma leggiamo dalle colonne de l’Unità, come si svolsero i fatti:
"Oggi Lina Alunni Cavalieri, una
signora di mezza età, è venuta a parlare di quella fotografia di soldati, in
cui è presente anche Graziosi, amico di suo figlio Renzo. Non sapeva dire una
cosa importante la Cavalieri, quando ha semplicemente riferito che a Vasto, siamo nel 1935, ufficiali di
marina non ve n’erano e si conoscevano tutti, lì sulla spiaggia. Solo di
agosto, nello specchio d’acqua di Vasto Marina, buttò l’ancora una squadra
navale. Si fermò per un giorno e mezzo. L’ha detto così, come una cosa senza importanza,
e subito è venuto fuori l’uomo conosciuto al mare. Nessuno ne ha parlato, ma
era lì, nelle domande di Libotte e di Pavini. Se Maria Cappa era, come i
testimoni vogliono far credere, una donna esuberante, certo quel giorno ella
commise il peccato veniale di non scrivere al suo fidanzato. Pacini,
contrariato, ha chiesto se ci fu in quell’occasione, qualche festa. Diamine se
ci fu e venne invitata tutta la colonia bagnante, ma la testimone non sa se
Maria vi andò".
La stessa signora Cavalieri, che
villeggiò a Vasto nel 1935, ammise
che suo figlio ebbe occasione di conoscere Arnaldo Graziosi, il quale lo incaricò
di sorvegliare la sua fidanzata in modo che nessuno potesse importunarla. Ma non
ce ne fu bisogno in quanto la famiglia Cappa faceva una vita riservatissima e
non vi fu mai ragione per muovere alcun appunto alla signorina Maria.
Durante il processo, a sorpresa,saltò
fuori l’esistenza di una lettera scritta dalla donna al fidanzato l’11 agosto del
1935, dove affermava che con il permesso dei suoi si era recata a visitare
le navi fino a sera inoltrata. Ecco uno stralcio della lettera scritta dalla
donna: "Arnaldo mio, dolce satiro,
nonché marito incontentabile, questa mattina la tua mogliettina è stata già a
Messa e ora sta con te. All’alba le navi hanno salpato verso nuovi orizzonti ed
hanno dato un nostalgico addio, che le onde mi hanno sommessamente portato.
Ieri sera, con il permesso dei miei, sono andata, con la donna di servizio, a
visitare le navi. La gita è stata movimentata e interessantissima. Sono andata
in un battello carico di persone e il mare era altissimo. I buoni lupi di mare
ci hanno fatto visitare tutta la nave e ti assicuro che mi ha entusiasmato. Al
ritorno siamo venuti in una barca a motore guidata dal pallido chiarore della
luna; ho desiderato la tua compagnia, come il solito. Avrei voluto andare con
te ad una velocità massima, con quel motorino, e intrepidi superare le onde
paurose del mare, che nella sera stellata mettono un senso di occulto
terrore...".
La strategia della difesa fu quella di
mettere in cattiva luce la donna, la fidanzatina che in un momento di debolezza
ha ceduto al fascino della divisa. In
aula vennero presentate una serie di lettere che Maria Cappa scrisse al fidanzato
negli anni 1935 e 1936 da Vasto. Lettere passionali scritte proprio durante
il periodo in cui venne consumata la presunta avventura prematrimoniale, che
secondo la difesa rivelavano una donna non proprio schiva e riservata come
l’accusa voleva far credere: "Prendimi
la bocca in un morso dolce; stringimi forte forte, tanto da farmi spasimare",
oppure "Sono ormai famosa in tutta Vasto, ma tu non temere, perché io so tenere
a bada i miei ammiratori”, ed ancora, giocando nel ruolo di moglie “Tua moglie esuberante non può davvero
resistere…".
In
aula depose anche la mamma della vittima, la quale affermò davanti al giudice
istruttore che la figlia era "pura e illibata" il giorno delle nozze.
La donna prima di uscire urlò "assassino"
nei confronti del genero, un gesto molto forte che ebbe il suo peso nella
sentenza finale.
L’arringa
dell’avvocato difensore fu lunghissima e ragionata, incentrata soprattutto
sull’esuberanza della vittima rimasta affascinata da un misterioso seduttore,
quel fantomatico "Signor X", di cui nessuno seppe mai dare
un’indicazione nemmeno sommaria. Poi la malattia e la vergogna per averla
trasmessa al marito ed alla figlia, fino a meditare il suicidio nella pensione
di Fiuggi.
Ma
alla Corte di Assise di Frosinone, prevalse la tesi che il musicista avesse un
valido movente per commettere l’omicidio: la relazione sentimentale con la
giovane allieva.
Questi
i dati principali rilevati dalla Corte: sulla scorta dei dati clinici acquisiti
nel processo, il contagio fu sicuramente comunicato dal marito alla Cappa
durante il primo mese di gravidanza e non viceversa come aveva tentato di
sostenere la difesa; in merito alla lettera-testamento venne rilevato il "distacco netto, preciso e profondo"
con lo stile delle tante lettere ammesse al processo dalla difesa; nella
lettera mancava qualsiasi accenno affettivo alle persone care e persino alla
stessa figlia Andreina; sempre dalla lettera non era rilevabile nessun
destinatario "determinato e neppure
determinabile", inoltre, "la
lettera non fu espressione di volontà della Cappa e Graziosi la conosceva e ne
sapeva il contenuto anche prima che la rinvenisse sulla valigia";
quanto alla posizione del braccio della vittima, che subì uno spostamento, la
Corte ritenne che l’arto fu spostato dallo stesso Graziosi; dalla posizione del
corpo e dalla perizia balistica venne dimostrata che la donna non avrebbe
potuto procurarsi un foro d’arma da fuoco nella direzione in cui venne riscontrata.
"Sono innocente: non ho tolto la mamma alla
mia bambina e mi rimetto a voi. Grazie". Furono queste le ultime
parole pronunciate con voce ferma da Graziosi. Alle 11,30 del 28 novembre il
presidente dichiarò chiuso il lungo dibattimento durato 67 udienze.
Alle
20,15 del 29 novembre 1947, dopo quasi nove ore di camera di consiglio, arrivò
il verdetto: condanna per omicidio premeditato a 24 anni e 9 mesi di
reclusione. Seguirono momenti concitati, come riportato dal cronista del Corriere della Sera: "…da parecchi punti dell'aula si grida:
«Vergogna». Parte della folla, eccitata e sconcertata, urla istericamente,
mentre la Corte si ritira. Taluni tentano di scavalcare le transenne e di
invadere il pretorio per raggiungere Graziosi. Con gli occhi pieni di lacrime,
Libotte grida: «Vergogna! Vergogna! C'è un Dio che non vi farà passare più la
notte tranquilla!». La moglie dell'avvocato cerca di calmarlo, di trascinarlo
via, ma Libotte continua ad urlare. A stento i carabinieri riescono a vincere
il disordine che si è impadronito dell'aula, a farla sgomberare faticosamente…".
L’anno
dopo la Cassazione confermò la condanna. Detenuto nel carcere di Frosinone,
Arnaldo Graziosi evase venti giorno dopo l’ultima sentenza, ma fu catturato
dopo alcuni giorni sui monti della Ciociaria.
Durante
la detenzione si dedicò alla composizione di colonne sonore per documentari.
Nel 1959, dopo 14 anni di carcere, ottenne la grazia, chiesta dalla figlia Andreina,
ormai diciassettenne, al Presidente della Repubblica Gronchi. Uscito dal
carcere tentò di rifarsi una vita nuova: lavorò come compositore e nel 1962
sposò una cantante lirica spagnola.
Il
6 marzo 1997 l’atto finale. Vestito in tiro, proprio come quel 21 ottobre 1945,
Arnaldo Graziosi, ormai ottantaquattrenne, si lanciò dal balcone della sua casa
di Grottaferrata, portandosi dietro quella verità che solo lui conosceva.
Lino Spadaccini
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