di Luigi
Murolo
Che
cosa può accadere scendendo nelle vuote cantine del centro storico di Vasto?
Qualcuno potrà dire: troveremo
tanta fanghiglia. Fanghiglia – va detto – che si
forma dalle acque sottostanti storicamente mai drenate e
che, in molti casi, riemergono combinandosi con i detriti sfarinati di intonaci
e calcinacci caduti. Proprio per tale motivo, la stessa fanghiglia diventa
traccia visibile (e tangibile) di quanto accade nelle basse profondità della
città antica grosso modo riconducibili, per coltellazione, al secondo gradone
dall’alto verso il basso del declivio
sotto l’attuale via Adriatica. E tutto questo grazie alla semplice presenza di
fanghiglia residuale. Quasi non bastasse, ulteriori notizie si ricavano dall’osservazione
delle murature in laterizio colà esistenti.
L’accesso
è lì, in un’angusta porticina localizzata a vico Sant’Agostino. Si scende un’unica
rampa di scale che conduce verso un’ampia sala terranea,sul cui fondo, verso
sud – corrispondente al n. 10 di piazza L. V. Pudente –[fig. 1], si incontra un
paramento murario fortemente connotato. In effetti, ci si trova di fronte a tre
fornici tompagnati con archi a sesto ribassato [fig. 2]che poggiano su
di un ampio arco gravante (anche se oggi destrutturato) su di una volta a botte[fig.
3]. FOTO QUI SOTTO
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1 |
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2 |
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3 |
A
questo punto la domanda non può che essere la seguente: come mai è presente una
forma originaria a loggiato inizialmente aperta che oggi si affaccia su di
un’area interamente colmata sottostante l’attuale piano stradale? Anche in
questo caso la risposta non può che essere univoca: ci si trova di fronte
all’ingresso murato di un’area originariamente non edificata, precedente alla
costruzione dell’attuale Palazzo d’Avalos. Del resto, l’antico portale dalla
tipologia durazzesca (l’ultima fase angioina) incorniciato nella facciata del
palazzo risulta sfalsato di poco più di tre metri rispetto al piano della
cantina di cui stiamo parlando. Che, a sua volta, si rapporta con la base della
porta a sesto acuto della chiesa palatina nel patio del monumentale edificio.E
che,infine, ha il riscontro nella profondità dell’opus incertum archeologicamente attestato nella Sala Grande del
Museo Civico. Ciò vuol dire una sola cosa: che, agli inizi del XV secolo, la
costruzione del Palazzo stravolge il precedente impianto medievale con il
conseguente innalzamento dell’originario piano stradale.
Da
questo punto di vista, proviamo a leggere un brano di un documento (riportato
dallo storico seicentesco Viti) dato da Giacomo Caldora alle calende di gennaio
della VI Indizione (vale a dire il 1° gennaio 1428. Ignoro, tra l’altro, le
ragioni che inducono lo stesso storico Viti, nel documento da lui stesso citato
e in cuiviene precisata la data, “VI inditione”
“in kalendis Ianuarii”, a indicare come elemento calendariale l’8
ottobre 1427 sotto il regno di Giovanna II). Ora, di là dalla discussione su intestatio esubscriptio (sfalsate di due mesi)ciò che conta è il significato
della testimonianzain quanto tale: Iacobus Caldora Miles armo rum Capitaneus
cumpropter fundationem nostri Palatii, quod ad praesens construitur in Terra
Vasti Aymonisne cessarmi fuit occupare certam partem Horti, velViridarij Venerabilis
Monasterij S. Augustini in dicta Terra Vasti siti […].
Che
cosa dice il testo? Che Giacomo Caldora, per la costruzione del Palazzo a
quella data già edificato, aveva avuto la necessità di occupare una porzione
del viridario del monastero agostiniano (non si tratta dell’ampliamento di un
precedente palazzo come scrive il Viti; versione, a sua volta, acriticamente
raccolta dal Marchesani). Sulla base del titolo di cui il Caldorasi fregiava «milesarmorumCapitaneus» (vale a dire,capitano generale dell’esercito regio),
titolo e funzione accordatigli da Giovanna II, poco dopo l’ingresso dell’uomo
d’armi a Napoli il 12 aprile 1424, si può dire che Giacomo avesse edificato il
palazzo tra il 1424 e il 1428. E che, dunque, prima di tale data, il viridario
(giardino, verziere) degli agostiniani aveva il loggiato proprio nel sito dell’attuale
cantina.Il corridoio murato e colmato con direzione o/e[fig. 4]attraversava il
monastero con il loggiato disposto al centro della sua lunghezza (evidente
l’iniziale chiusura e il successivo “pentimento” [fig. 5] con la nuova
riapertura). La distorsione anamorfica della pianta di Vasto del 1793 consente
di leggere la struttura del monastero così com’era pervenuta a quella data (la
linea bianca innestata sulla fig. 6 posiziona la cantina nel
contesto monastico). FOTO QUI SOTTO
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4 |
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6 |
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7 |
Sull’aerofotografia del 1933 (a sua volta modellata
sull’antica mappa a volo d’uccello) ho posto una linea bianca verticale che
indica i limiti del monastero al 1793[fig. 7]. Così, tra la ricostruita
cappella dell’Addolorata di S. Agostino e il sito indicato da quella segnatura era
stato definito il percorso dell’antico corridoio.
Non
sappiamo se la reggenza del Vasto – dal Caldora affidata al suo procuratore ser
Ioanne da Cremona («huomo di mala qualità», lo definisce il Viti)– abbia
soddisfatto le richieste del potente capitano di ventura. Sappiamo solo che il
Palazzo ha retto alle insidie del tempo e che le superstiti tracce del Loggiato
agostiniano restituiscono quanto meno i fines
dello scomparso viridario.
LUIGI MUROLO
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