lunedì 29 maggio 2017

CONCHIGLIE SPARSE: OPERA PRIMA DI GIACINTO ZAPPACOSTA

di NICOLANGELO D'ADAMO

Non capita spesso di imbattersi in un libro di narrativa che segue un genere letterario non riconducibile ad una novella o ad un romanzo. Conchiglie sparse, l’opera prima di Giacinto Zappacosta, a suo modo è la sceneggiatura del racconto che contiene: una serie di dissolvenze, di quadri o scene, che si susseguono in ragione del recinto emozionale dentro cui vuole portarci l’autore. E’ l’ “io narrante” che si ferma, struttura la scena, la commenta e spesso si serve di una poesia per spiegarcene il senso recondito, la metafora, i riferimenti evocativi. Il testo poetico è poesia a se stessa, è evocativa, appunto, di sentimenti, emozioni, stupori, ma non per questo meno funzionale alla scena presentata. Insomma è poesia vera, come vuole il significato greco del termine ”poiesis”, “creazione”.

Come non pensare ad un antichissimo genere letterario, il cosiddetto “Prosimetro”, l’esempio più illustre forse lo dobbiamo cercare nel Satyricon di Petronio, ma nella letteratura italiana il primo che lo sperimentò con successo fu quel grande genio di Dante Alighieri, con la “Vita Nova”: un insieme di poesie e prose le une funzionali alle altre: la prosa introduce, spiega o commenta il testo poetico o accade il contrario. In larga misura ritroviamo questo schema in Conchiglie Sparse: ad un vago periodo storico di riferimento, da cui parte il racconto con la prima scena di ragazzi che giocano spensierati a pallone, fanno seguito, tra narrazione e poesia, altri momenti sceneggiati fin nei dettagli degli abbigliamenti dei giovani personaggi e dell’infanzia del protagonista.

Un sottile filo narrativo tiene insieme le varie scene e ci fanno da guida temporale i grandi avvenimenti di cronaca che hanno caratterizzato alcune date degli ultimi decenni del secolo scorso e l’inizio del corrente: dall’elezione a Presidente della Repubblica di Giuseppe Saragat, allo sbarco sulla luna, all’indimenticabile vittoria del mondiale Berlinese nel 2006.

Il testo di Giacinto Zappacosta non ha una divisione in capitoli, è un atto unico sufficiente a ripercorrere l’infanzia e la giovinezza del protagonista, che non ha nome come non hanno nome i personaggi di contorno: sono figure anonime, funzionali ad un percorso di esposizione delle idee dell’ autore, le sue scelte culturali, i suoi valori e la dichiarata volontà di difenderli, anche a dispetto di una società che fa di tutto per contrastarlo viaggiando su binari opposti. Insomma è il resoconto di un processo di crescita di un giovane, che mostra sin da ragazzo di possedere un sistema di valori abbastanza solido e denso di afflato religioso. Valori che lo portano a chiedersi, per esempio, se le spese per mandare un uomo sulla luna siano state ben investite o era possibile con quei milioni, aprire ospedali e dar da mangiare ai popoli più poveri del pianeta.

Ma trova spazio nel racconto anche un prete che chiede alla sua comunità un più convinto impegno politico per contrastare l’affarismo politico e il degrado della vita pubblica. E qui sinceramente pare di riconoscere la comunità di S. Giuseppe di Vasto alla fine degli anni sessanta.

Un più convinto impegno morale il protagonista lo chiede anche per contrastare la deriva abortista, tema che sarà ripreso con vigore dal protagonista adulto che, contro il parere dei medici, riesce a far portare a termine felicemente la gravidanza alla moglie.

Interessante il quadro d’ambiente che il nostro Giacinto ricostruisce in occasione di una prima comunione: il rinfresco a casa prima della cerimonia e il sontuoso pranzo con la porchetta dopo (le abitudini attuali hanno radici antiche); occasione per presentarci un sacrestano, “rude nel suo approccio” e dialettofono, ed un gruppo di suore orientali (indiane) che si danno da fare per pulire e sistemare la chiesa. Sembra di vederci un affettuoso ricordo di uno storico sacrista, Peppino Ruzzi, tuttofare della parrocchia di S. Maria Magg. e delle suore indiane che collaborano attualmente alla pastorale di quella chiesa.

Da un certo punto in avanti le scene si susseguono in fretta, sono concatenate e creano ansia, voglia di sapere come va a finire. Ed è un errore affrettarsi per arrivare all’ultima scena, perché c’è ancora spazio per riflessioni adulte, il protagonista è ormai un quarantenne, e soprattutto non si gustano a pieno le liriche che chiudono il lavoro: mi riferisco soprattutto al tenero ricordo di un’amica d’infanzia dell’autore precocemente scomparsa:

Innamorarmi di te, dolce donna mia,
sicuro approdo nelle tempeste,
ispiratrice di rime sparse,
non rende vana l’incipiente vecchiezza,
che pure bussa alle porte del mio tempo (…)

Le poesie sono delicate e a tratti struggenti, Rime sparse le definisce il nostro Giacinto ricordando il Petrarca, ma penso voglia anche riferirsi allo stile poetico che ha scelto, il verso libero, affrancato da ogni schema metrico o vincoli di rime. Bellissimi versi, mai ridondanti, che evocano le emozioni dell’infanzia e dell’adolescenza, senza circoscriverli, ancora aperti per lasciare spazio a chi legge di riconoscervisi.

Bella l’intemerata contro gli ignoranti, giudicati “irrecuperabili”. Ad essi, il raffinato cultore della nostra lingua, qual è Giacinto (e lo dimostra anche in questo lavoro), da sempre ha riservato critiche severe e condivisibili stroncature.

Ora c’è solo da aspettare che si faccia avanti un buon regista in grado di dare visibilità scenica al racconto. E’ l’augurio più sincero che faccio a Giacinto, insieme ai complimenti per questo bel regalo letterario.
NICOLANGELO D’ADAMO

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