di Luigi
Murolo
In un articolo pubblicato sul mio blog (luigimurolovasto.com) il 15 febbraio 2016, ho posto una questione: «Salvare San
Sisto». Di quell’intervento ritengo utile sottolineare l’interrogativo finale
che il benevolo lettore potrà trovare in calce al testo integrale che qui
ripropongo. La domanda potrà forse trovare adeguata risposta. Si potrà leggere
l’ipotesi nella successiva parte in corsivo. Intanto, per avviare il discorso,
vale la pena ripresentare (con qualche lieve modifica)il pezzo scritto l’anno
scorso.
SALVARE SAN
SISTO
diLuigi
Murolo
Correva il 23
gennaio 1592 quando notar Berto de Bertolinis, nel convento di S.Agostino di
Vasto, rogava in
enfiteusi una vigna del beneficio della chiesa di S. Sisto in Vasto, grancia dell’abbazia di S. Maria d’Arabona (localizzata nel comune di Manoppello). L’atto, conservato nella sezione di Archivio di Stato di Lanciano (notar B. de Bertolinis, Protocolli, ms., vol. I, c. 3 v), è fino a oggi l’unica testimonianza moderna nota di quella presenza cistercense nel territorio di Vasto. Un atto – va detto – che, sconosciuto alle Storie della città, spiega la funzione del singolare edificio visibile ancora oggi esistente e di cui si ignorava tutto. Prima Viti e poi Marchesani (da cui lo storico ottocentesco desume l’informazione) parlano esclusivamente di «beneficio semplice rurale» (tra l’altro, nessuno dei due autori aveva avuto la possibilità di misurarsi con le RationesdecimarumItaliae dell’Archivio Vaticano pubblicate da Pietro Sella nel 1926 nel volume Aprutium-Molisium. Le decime nei secoli XIII-XIV, in cui, al n. 4149, è attestata la dipendenza arabonese di S. Sisto fin dal 1324-25).
enfiteusi una vigna del beneficio della chiesa di S. Sisto in Vasto, grancia dell’abbazia di S. Maria d’Arabona (localizzata nel comune di Manoppello). L’atto, conservato nella sezione di Archivio di Stato di Lanciano (notar B. de Bertolinis, Protocolli, ms., vol. I, c. 3 v), è fino a oggi l’unica testimonianza moderna nota di quella presenza cistercense nel territorio di Vasto. Un atto – va detto – che, sconosciuto alle Storie della città, spiega la funzione del singolare edificio visibile ancora oggi esistente e di cui si ignorava tutto. Prima Viti e poi Marchesani (da cui lo storico ottocentesco desume l’informazione) parlano esclusivamente di «beneficio semplice rurale» (tra l’altro, nessuno dei due autori aveva avuto la possibilità di misurarsi con le RationesdecimarumItaliae dell’Archivio Vaticano pubblicate da Pietro Sella nel 1926 nel volume Aprutium-Molisium. Le decime nei secoli XIII-XIV, in cui, al n. 4149, è attestata la dipendenza arabonese di S. Sisto fin dal 1324-25).
Ora, con il
sintagma appena enunciato, s’intende la chiesa consacrata in proprietà dove si
dice messa e in cui non si esercita la «cura d’anime» (vale a dire, battesimi,
matrimoni ecc.). E’ ciò che, in altri termini, si definisce «sinecura». Nello
stesso è tempo è «grancia», cioè una struttura originariamente adibita alla
conservazione di grani e sementi. I due livelli (terra e primo sono originari.
L’ultimo è posticcio) corrispondono storicamente alle due funzioni (stando a
quanto è precisato nel documento notarile). Salvo poi esser attestata
esclusivamente come «beneficio» (secondo quanto afferma lo storico seicentesco
Nicola Alfonso Viti).
Nella geografia
delle abbazie cistercensi d’Abruzzo (Santa Maria di Casanova, Santa Maria
Arabona, Santo Spirito di Ocre, Santi Vito e Salvo, Santa Maria della
Vittoria), San Sisto costituisce l’estremo punto meridionale delle proprietà
araboniane nell’Abruzzo Chietino. Da questo punto di vista, pone un problema di
estremo interesse nell’analisi della distribuzione fondiaria di quest’ordine
soprattutto in rapporto alla grande abbazia cistercense di S. Vito (coincidente
con l’attuale centro urbano di S. Salvo).
Allo stato attuale non si conoscono documenti in grado di spiegare tale relazione. Ciò che interessa, al presente, è soffermarsi sulla struttura vastese.
Allo stato attuale non si conoscono documenti in grado di spiegare tale relazione. Ciò che interessa, al presente, è soffermarsi sulla struttura vastese.
Il Catasto
onciario (1742) ne esclude ogni riferimento. Il che implica già a quella
data la cessazione di ogni attività funzionale con la conseguente vendita della
proprietà. Gli abati commendatari di S. Maria Arabona dismettono, dopo il 1799,
perfino la stessa abbazia, cedendola alla famiglia Zambra di Chieti (che nel
1968 la dona all’odierna Arcidiocesi di Chieti-Vasto). Si può ben capire quanto
il singolare organismo architettonico fosse stato assimilato, già nel corso del
Seicento, a una qualsiasi casa colonica, in questo senso, di difficile
accertamento nei primi registri catastali. Non sappiamo nemmeno se confinasse
con la proprietà d’Avalos di Ginese (o Torre Mozza) cui risponde verso est. La
presenza del vallone anticamente detto «Fonte dell’Oppio» (il lòppio (opulus)
è l’acero campestre posto a sostegno delle viti) rende ancora più complessa
l’identificazione. Una cosa però è certa. Tale localizzazione pone la
tardomedievale grancia di S. Sisto fuori dal districtus di Vasto che era
l’originario territorio comunale della città.
Ora, di là dai quasi esclusivi problemi che connotano siffatto organismo, si tratta comunque di porre all’attenzione la sua tutela. Salvare San Sisto (SSS) significa salvare una delle due tracce cistercensi storicamente attestata in città (l’altra è S. Maria in Valle). La compresenza in un unico complesso di una chiesa (sommersa dalla vegetazione) e del “magazzino” costituisce un ottimo argomento di indagine su cui discutere. Ma la vera questione è un’altra. È capire come mai la disastrosa urbanizzazione in cui il manufatto è inscritto non abbia alterato il fascino del suo unicum ambientale. Visitare per credere. Ecco perché si tratta innanzitutto di bloccare l’eventuale urbanizzazione in quell’area.
Ora, di là dai quasi esclusivi problemi che connotano siffatto organismo, si tratta comunque di porre all’attenzione la sua tutela. Salvare San Sisto (SSS) significa salvare una delle due tracce cistercensi storicamente attestata in città (l’altra è S. Maria in Valle). La compresenza in un unico complesso di una chiesa (sommersa dalla vegetazione) e del “magazzino” costituisce un ottimo argomento di indagine su cui discutere. Ma la vera questione è un’altra. È capire come mai la disastrosa urbanizzazione in cui il manufatto è inscritto non abbia alterato il fascino del suo unicum ambientale. Visitare per credere. Ecco perché si tratta innanzitutto di bloccare l’eventuale urbanizzazione in quell’area.
Purtroppo non ho
potuto visitare l’interno. Ma lo stato esterno dell’organismo, per quanto
degradato, consente di guardare con realismo a un suo possibile restauro. Di
certo non si trova nelle condizioni di estremo abbandono in cui versa, ad
esempio, villa Frutteto. Né in quelle che hanno recentemente interessato Santa
Lucia. Cerchiamo di evitare che il peggio accada.
Io ho posto semplicemente un problema. Si tratta ora di affrontarlo.
Io ho posto semplicemente un problema. Si tratta ora di affrontarlo.
Il
tutto nasce da un concorso bandito dal Miur rivolto a tutte le scuole italiane
dal titolo «Le
scuole adottano i monumenti della nostra Italia». Dato che l’assessore all’Istruzione di Vasto – Bosco – ha deciso di leggere questo tema in chiave
locale coinvolgendo tutti gli istituti di formazione (primari e secondari di
primo e secondo grado). Dal che si evince che, proprio in ragione di tale
scelta, diventa utile avviare una politica dei beni culturali tesa a scoprire i
monumenti disseminati e nascosti nel territorio.
Intanto
una breve nota etimologica. Monumento deriva dal latino mŏnēre con il significato specifico di «strumento
per far ricordare». E proprio perché questo è l’originario valore semantico
della parola, ciò vuol dire che ogni monumento risponde a tale funzione. La
qual cosa implica che, anche se obliterato da una vegetazione fittissima e
impenetrabile, l’oggetto non cessa di assolvere allo scopo per cui è stato
edificato. Renderlo di nuovo visibile, accostabile, dunque, è il compito che il
postero deve assumersi per renderlo ancora testimone di quella storia
insediativa e culturale di cui è portatore.
Non
uso volutamente il termine valorizzazione. Esso reca in sé lo stigma della merce che, di fatto, privilegia solo ciò che è scambio,
consumo. Dal punto di vista della valorizzazione poco importano «li cùcchiǝvìcchiǝ»
(sintagma nominale che, in dialetto vastese, designa spregiativamente il
vecchio rottame di coccio inutilizzabile). «Li cùcchiǝvìcchiǝ» non hanno la
qualità di essere «belli».«Belli», cioè, per stimolare, una sbigliettatura o,
al limite, l’apertura di un chiosco dove
potere addentare golosamente un panino con hamburger. No, Sono solo resti!
Resti che parlano per chi li sa leggere. Sono guardiani della soglia che
“ammoniscono” il pensiero postumo.
Che
cosa significa tutto questo? Molto semplice. Il bene monumentale va scoperto, conservato, tutelato. E tutelare significa rendere sicura una
cosa. Il che vuol dire: la sua funzione non è quella di merce produttrice di valore.
Il suo compito sta nell’essere testimonianza culturale di una comunità. Che
implica, tra l’altro, cercare di capire le stesse ragioni antropologiche che
hanno indotto la stessa communitas a
rimuovere dal proprio orizzonte mentale la memoria del manufatto. In termini
più generali, comprendere le ragioni che spingono un’organizzazione sociale a ricordare qualcosa e a dimenticarne
altre.
Tutto
questo è studio, ricerca. E’ conoscenza dei luoghi, degli archivi privati,
ecclesiastici, comunali, statali. Del dialetto, delle tradizioni popolari, dei
grandi repertori linguistici a esse connessi. Delle relazioni traquesti aspetti. Intrecci di elementi che nulla
hanno da dividere con il processo di valorizzazione
dei beni culturali che, di fatto, sottende
lo scambio e la circolazione del denaro.
I
resti della chiesa di San Sisto possono essere solo conservati e tutelati. Al
più possono essere adottati – vale a dire, «scelti», per essere oggetto
di cura e manutenzione in quanto segni caratterizzanti di una specificità
storica di quel territorio. Bene ha fatto, dunque, il Polo Liceale “Mattioli”
di Vasto a lanciare una proposta di questo tipo. Un’adozione possibile per
un’istituzione scolastica quella dei soli resti della chiesa di S. Sisto (non
del magazzino – la “casa a torre” – a
essa collegato). E ciò – va osservato – non solo per favorire la formazione di
una identità del luogo in un’area densamente abitata. Ma anche per operare
intorno all’educazione all’ambiente e alla tutela dei monumenti. Che dire! Un
magnifico progetto da avviare seduta stante. E che, in qualche modo, già inizia
con la produzione di un documentario di tre minuti realizzato da un gruppo di
studenti del Polo liceale.Posso solo aggiungere che sarebbe stato interessante
per il «Mattioli» poter lavorare sullo storico edificio con cui confina:
l’avalosiana Villa Frutteto. Purtroppo sono tre i motivi ne ostano gravemente
l’intervento culturale: 1. la mole del fabbricato; 2. la sua pericolosità
strutturale per l’estremo degrado in cui
versa; 3. la proprietà privata.
Per
non concludere, mi limito a una considerazione. L’anno scorso vedevo buio sui
resti della chiesa di S. Sisto. Ma una sorta di serendipity ha aperto qualche possibilità per la tutela del luogo. Ci si può
credere? Direi di sì. Si tratta solo di cominciare.
LUIGI MUROLO
LUIGI MUROLO
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