(fig. 1) |
di
Luigi
Murolo
Mi permetto
qualche rapidissima annotazione storica sulla cappella di S. Teodoro da poco
riaperta al pubblico grazie all’intervento dell’Associazione Vigili del Fuoco
in congedo e dal suo presidente Antonio Ottaviano. Mi auguro di fare cosa
gradita a chi ne è interessato.
Proviamo
per un solo momento a tentare la descrizione di questa immagine ripetuta ben
quattro volte che troviamo nella chiesa di S. Antonio di Vasto. Il risultato
potrebbe essere il seguente: un leone coronato poggiante su un monte di tre
cime che nasce dalla punta e che tiene con la branca sinistra un ramo verosimilmente
di spigonardo, accompagnato in capo da tre stelle (fig. 1).
Stando così le cose, non ci capita, forse, di incontrare
uno scudo simile in una cappella vastese da poco riaperta al pubblico
intitolata a un non ben definito San Teodoro? Direi proprio di sì. Basta un
semplice raffronto per rendersene conto (fig.
2).
(fig. 2) |
Ma se, a questo punto, cerchiamo di figurare tali stucchi con smalti e
colori, non possiamo sfuggire alle indicazioni di quella blasonatura che
recita: «d’argento al leone d’azzurro coronato d’oro, poggiante su monte verde
di tre cime, nascente dalla punta e tenente con la branca sinistra un ramo di
spigonardo di verde, accompagnato in capo da tre stelle d’oro, male ordinate» (fig. 3).
(fig. 3) |
Non
vi sono dubbi. I casi esaminati di scudettaturapongono al centro la firma della
committenza. Vale a dire, la forma iconica con cui il finanziatore suggella la
sua fondamentale presenza nella realizzazione dell’opera. Che non implica la
semplice enunciazione epigrafica del nome. Ma, al contrario, la sua rappresentazione
artisticache viene associataalla stessa materialità artistica dei lavori
eseguiti: stucchi con stucchi. Da questo punto di vista, l’elemento chiave
della composizione araldica diventa lo spigonardo
(lavandula dentata) che, rinviando al
lemma dialettale vastese spiganàrdә,
deriva dal latino spica nardi,sottolineando,
con il suo nome, il nascondimento prima e il disvelamento poi di quello del suo
mandatario: «de Nardis». Quel Carlo De Nardis, insomma,che, ricco possidente,
nel 1734 commissiona in contemporanea tanto le rocailles del convento francescano intitolato a S. Antonio da
Padova (attuale chiesa) quanto l’edificazione ex novo del cappella privata di S. Teodoro.
In
tal senso, cappella «privata» non è da intendere come sinonimo di cappella
«padronata». La prima, infatti,viene a designarel’istituzione ecclesiastica
senza cura d’anime che il privato apre al culto pubblico gestendo in proprio il
suo funzionamento economico (in particolare, attraversoil regolare mantenimento
del canonico da lui destinatoa tale incarico secondo i criteri stabiliti dal
Capitolo). La seconda, al contrario, è la cappella a uso esclusivamente
familiare in cui il sacerdote (non il canonico) dice messa volta per volta
secondo le esigenze fissate dal proprietario (voluta da Vincenzo Trecco,
discendente dei de Nardis). Come si può ben intendere, la cappella dei De Nardis
nasce come «privata»,ben diciassette prima della traslazione delle reliquie.
Intanto,
l’allora sessantasettenne Carlo de Nardis (essendo nato nel 1667, stando al Catasto del 1742)vuole informare i
posteri sulla natura giuridica di quella chiesa di S. Antonio in cui interviene
con i propri denari per il suo restauro. Lo apprendiamo attraverso un simbolo in
bassorilievo (ignorato fino a oggi da qualsiasi memoria storica sulla città)posizionato
su di un altare laterale posto a sinistra dell’altare maggiore (o, come si
diceva un tempo, in cornuevangelii) (fig. 4).
(fig. 4).
|
Si tratta di una mitra
vescovile poggiante su libro (segno distintivo dell’iconografia antoniana) i
cui elementi sono collegati tra loro da un nastro che li avvolge. Che cosa
implica tutto questo? Che la chiesa di S. Antonio (a differenza delle altre
chiese di Vasto tutte sottoposte a amministrazione capitolare [tanto di S.
Pietro quanto di S. Maria]) risulta essere di giurisdizione vescovile. Non
solo. Ma con un’ulteriore particolarità. Che la stessa, stando a un documento
redatto nel 1839 dal canonico Florindo Muzii (Stati delle Chiese, Cappelle ed Oratorii di Vasto formati dal Canon.
Florinto de’ Baroni Muzja’ 6 maggio 1839 per richiesta dell’Arcivescovo di
Chieti) era soggetta all’ amministrazione del vescovo di Termoli. Qualcosa,
insomma, che rendeva il convento francescano vastese una sorta di isola nel
contesto della gestione spirituale diocesana locale (questione risolta solo nel
1853 con l‘istituzione della diocesi di Vasto).
Ora,
fatta tale precisazione, si tratta di cogliere il rapporto che intercorre tra la
cappella di S. Teodoro e la chiesa S. Antonio (e qui va ricordato che nella
chiesa conventuale era allocata la tomba monumentale dei de Nardis). A
proposito della prima, troviamo un’importante testimonianza nei Ricordi di Francesco Ciccarone:
«Finalmente [il nonno Francesco Paolo morto
il 24 febbraio 1852ndr] nel 1823 comprò la casa di Antonia de Nardis in via
S. Giovanni (ora Plebiscito). […] Lungo la scalinata vi erano nicchie ed in una
di esse era la statuetta di S. Antonio che prima stava sull’altare della
Chiesetta e poi fu levata quando la Chiesa stessa, che era intitolata a quel
santo, fu dedicata a S. Teodoro in omaggio al corpo santo che l’Arcidiacono de
Nardis di Barete aveva fatto venire da Roma con grande spesa e solennità». I
contratti d’acquisto erano ben documentati. Ineccepibile, dunque, la qualità
della testimonianza. Ecco allora il punto. Inizialmente la chiesa di s. Teodoro
era intitolata a S. Antonio e che la salma trasferita era quella di un corpo
santo attribuito a un Teodoro. Cosa che, evidentemente, nulla ha dividerecon i
sessanta Teodoro ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa di Roma (cfr. le
agiografie raccolte dalla Bibliotheca
Sanctorum, Roma, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università
Lateranense, 1969, vol. XII, coll. 237-285).
Che
cosa significa tutto questo? Molto semplice. Che, dopo aver registrato la
giurisdizione diocesana del convento francescano e averne restaurato la chiesa
a maggior gloria della sua famiglia i cui avi erano là sepolti, il de Nardis
realizza un piccolo S. Antonio di amministrazione capitolare (capitolo di S.
Pietro) trasformato successivamente in un altro titolo. Che con questo nomen celebra nella casa avita il santo
cui la famiglia era votata. Che riconsegna a uno dei due capitoli un titolo che
era di pertinenza della diocesi termolese. Che questo stretto rapporto con
l’amministrazione ecclesiastica della città porta Giuseppe Maria de Nardis,
nipote di Carlo, a essere l’ultimo Prevosto capitolare della Chiesa di S.
Pietro dal 1796 al 1808.
La
cappella oggi riaperta al pubblico dall’Associazione Vigili del Fuoco va
riletta storicamente nelle due facies
S. Antonio – S. Teodoro. Che la prima fase risulta essere quella di S. Antonio.
Gli elementi decorativi – tanto gli stucchi quanto il pavimento in ceramica –
appartengono a tale periodo. Gli stessi pavimenti in ceramica di Vietri
sopravvivono nell’abbandonata cappella di S. Gaetano dei conti Ricci in via S.
Maria Maggiore. Così come erano sopravvissuti fino a una ventina di anni fa sul
piano nobile di Palazzo d’Avalos. Un incredibile intervento chiamato restauro
(?) ha consentito la rimozione dell’impiantito originario sostituendolo con quello
recente oggi visibile al pubblico (un dono gradito ai mercanti di anticaglie e
ai rigattieri). Ma di là dal rimpianto, torna utile considerare lo
straordinario lavoro di recupero prodotto dal volontariato. Da questo punto di
vista, l’ultima sottolineatura è quella sui marmi presenti nell’edificio voluti
dalla famiglia Ciccarone nel 1929.
Che
posso dire! Mi sarebbe piaciuto vedere dalle grate oggi murate il corpo dei
fedeli che frequentava la cappella. Un panopticon
d’altri tempi che (senza riuscirci) cercava di controllare gli accessi senza essere
visti. Non avrei riconosciuto nessuno. Purtroppo non ho avuto la fortuna di
immaginare questa scena. Nemmeno dal piccolo deambulatorio posto sopra
l’ingresso da cui «li signîrә» (per
usare un termine dialettale) attendevano allo svolgimento delle celebrazioni
liturgiche. Avevo un vaghissimo ricordo del luogo. Lo avevo visitato grazie a
Paolo Ciccarone, mio compagno di scuola alle elementari. E poi tanto ieri,
quanto oggi quel titulus – S. Teodoro
– mi è stato sempre familiare. Mi ha sempre accompagnato. Del resto, come lo
può dimenticare chi in quella via è nato!
Nessun commento:
Posta un commento