lunedì 18 luglio 2016

DOMENICO ROSSETTI (4^ puntata): "La Tragedia di San Gavino"


di Lino Spadaccini
 
Al fortunatissimo anno, ricco di glorie e successi personali, il Rossetti aggiunge la classica ciliegina sulla torta, con la pubblicazione di una tragedia, S. Gavino, rappresentata per la prima volta il 29 novembre del 1800 e replicata per cinque volte, all’interno della Chiesa dei Cavalieri (l'odierna chiesa di S.Giacomo) a Sassari, dove, per l’occasione, una parte del tempio cristiano viene trasformato in teatro.
 
La tragedia, pubblicata nel 1801 dalla Azzati di Sassari (ristampata nel 1885 dal Tipografo Uras di Oristano), è composta da un proemio e cinque atti, accompagnato da esaustive annotazioni. L'operaè dedicata a Sua Altezza Reale Placido Benedetto di Savoia, conte di Moriana, generale delle
regie armate e Governatore della Città e del Capo di Sassari e Logudoro.

L’azione si svolge nella città di Torres, l’odierna Porto Torres. Siamo nell’anno 290 quando a Roma il Sommo Pontefice, S. Cajo, nomina Vescovo Proto, e diacono Gianuario. I due servi della chiesa vengono spediti al Turritano lor suolo natio per diffondere la dottrina cristiana.

Anche nell’isola sarda, come in tutte le colonie romane, infieriva la persecuzione di Diocleziano per mano del pretore romano Barbaro. Quest’ultimo, informato della predicazione di Proto e di Gianuario, li fa arrestare e rinchiudere, sottoposti all’attacco di fiere e velenose serpi, e per farli convertire ai loro Dei paganiLi astringi ad adorarli, e chiunque ardisse / O di ostinarsi, o ripugnare, sia / Dopo mille tormenti, e mille strazii / Condannato a morir barbaramente.

Saputo che i due cristiani sono ancora in vita, Barbaro li fa rinchiudere in una tetra prigione, costretti a torture spietate:

 
Stridersi sotto l’infocate lastre,

Da pettini di ferro poi stracciarsi,

Volgersi da tenaglie; eculei, e ruote

Farò mettere in opra, ed altri molti

Ordigni di dolor, per prolungare

Quanto si può lor morte. Oh, quai saranno

I lor contorcimenti, gli urli, i pianti,

I gemiti, i sospiri, e le preghiere!

 

Gli occhi di Barbaro sono pieni di ira e odio:

 

Qual follia maggior! Due Cristiani,

Miserabili insetti agli occhi miei,

Opporsi ai miei voler! Sedure in parte

Gli adorator degli Dei! Vedrò, se in mezzo

A fieri spasmi, e a crude pene, avranno

L’istesso insovvertibile ardimento,

E se una morte vergognosa, e infame

Verrà a sottrarli il lor sognato Iddio.

 
La sorte di Proto e Gianuario è affidata a Gavino, cavaliere romano dell’illustre famiglia dei Sabelli, comandante delle truppe imperiali. A contatto con i suoi "prigionieri", a Gavino cadono tutte le certezze sugli Dei pagani: comincia a pensare al venerabil Vescovo e inizia una riflessione interiore che lo porta a dubitare delle sue vecchie convinzioni: ...Gavino, / Dubiti forse, che ci siano i Numi?/ A che negarlo, sì, la mia credenza / È vacillante già...

Gavino osserva i prigionieri e comincia a commuoversi ed a provar un senso di pena per loro:
 

Nò Barbaro non v’è! Dove son io?

Ho la mente sì ingombra di stupore,

Che temo di sognar! Chi vide mai

Prodigio egual? Un giovinetto, un vecchio,

Tenero l’un, l’altro canuto e lasso

Resistere così? Mentre le carni

Lor straziavan le tenaglie, mentre

Stridevano, fumavano le spalle

Sotto le rosse scintillanti lastre

Non alzarono un grido di dolore!

Negli occhi lor nemmeno piccola goccia

Di pianto aparve; ma al contrario liete

Avean le luci, e lor brillava in volto

Un sorriso di gioia! quante lodi

Non cantarono ancora al loro Dio!

Ah! Chi son questi, o Dei, che vincer sanno

Sì facilmente la natura istessa,

Ed esultano più nei tormenti,

Che nei piacer?...

 

Spinto dal desiderio di capire meglio la natura straordinaria dei due uomini, Gavino decide di incontrarli per vedere se il loro Dio è più forte degli Dei pagani: Alle Carceri andrò... contro il lor Dio/ Disputerò... ma, se sarò convinto?/ Allora e che farò?... sarò Cristiano.

Quando Gavino si trova faccia a faccia col Vescovo, rimane sorpreso che l’uomo aveva già letto nel suo cuore: ... L’alma / Non vi si agita tutta? Non sentite / Una voce potente entro di voi / Che vi parla, convince e persuade, / D’abbandonare i vostri Dei, / E di farvi Cristian?

Gavino è sconvolto, cerca di ribattere alle affermazioni del Vescovo, ma le sue parole sono prive di forza e di convinzione ed alla fine cede: Non più, non più, son vinto. / Eccomi a’ piedi tuoi, e ai tuoi voleri / Padre, Fratello, Amico..., e senza esitazione chiede di essere battezzato, e quindi libera i prigionieri.

La scena si fa, attimo dopo attimo, sempre più drammatica: quando Gavino si trova davanti a Barbaro per confessargli la propria conversione, emette la sua sentenza di morte:

 
Barbaro: Dicesti? Udii. Or che attendi da me?

Gavino: Morte.

Barbaro: L’avrai.

 

Giulia, sorella di Barbaro e innamorata di Gavino, ascoltando quelle tragiche parole si butta in ginocchio ai piedi del fratello e lo prega di ritornare sulla propria decisione, offrendosi come vittima da sacrificare.

Barbaro non vuol sentire ragioni e ordina che Gavino venga cinto di catene e trascinato fuori della città fino al Monte Balai per essere decapitato.

Siamo giunti all’ultimo atto. La tragedia sta per consumarsi. Gavino, come ordinato, viene trascinato fuori della mura, ma la popolazione, davanti a quello strazio, insorge contro i carcerieri e tenta in tutti i modi di liberarlo. Gavino è cosciente di quello che lo attende, ma la preghiera è la sua forza: per tutto il percorso non smette mai di invocare il Signore ad alta voce, convertendo i cuori della gente.

Arrivato sul luogo della decapitazione, s’inginocchia, con lo sguardo sereno rivolto al cielo. A questo punto si consuma il martirio palesando a tutto il popolo la sua forza salvifica: il martire appare a Proto e Gianuario nel loro nascondiglio e li esorta ad uscire allo scoperto.

Siamo giunti alla conclusione del dramma. Una comparsa introduce un bacile con la testa di Gavino (Ecco, o signore, / L’empia testa recisa). Alla sua vista Oppiano, che scopre di essere fratello di Gavino, scoppia in pianto: Oh Ciel che veggio, / Che spettacol crudele! Ah, mio fratello! Giulia, vinta dalla disperazione prende un pugnale e si ferisce a morte: Io cesso finalmente / Di più vedervi, orrore di natura, / Nulla a bramar vi resta. Omai fastoso / Andar potete di voi stesso... O Dei! / Già mi si ecclissa il giorno... io manco... moro.

 
Durante l’anno successivo, il Rossetti pubblica altre quattro poesie equamente divise tra i torchi di Antonio Azzati e per Il Polo: mentre la prima ricalca la poesia encomiastica, già utilizzata più volte dal Rossetti, questa volta prendendo come pretesto la partenza da Sassari del Vicerè Carlo Felice, le altre sono di carattere religioso, scritte per la festa della Santissima Vergine Addolorata, per la processione del Giovedì Santo e per la processione del Venerdì Santo.

Anche per il 1802 l’attività poetica del Rossetti è molto produttiva: per le nozze di Don Serafino De-Candia, nativo di Torre del Greco, cavaliere dell’ordine militare dei SS. Maurizio e Lazzaro, con Marietta De-Cize, il Rossetti offre un canto epitelamico formato da trentotto ottave, con il metro ABABABCC, lo stesso già usato per La superbia de’ Galli punita.

Lo stile del canto risente ancora degli influssi arcadici: Marte, Imeneo, Giove, Amor e Venere sono alcuni dei personaggi allegorici provenienti dalla mitologia classica, per rendere omaggio al «Grande Eroe fra le guerriere classi» e alla sua gentile sposa, descritta con minuzia e dovizia di particolare, quasi a renderla presente e reale; una bellezza unica, che al dir del Rossetti non ha pari al Mondo:

 

Maria così gentile, e ben formata,

Che non pinse l’eguale Apel nemmeno,

Che ha bionda chioma lunga, e inanellata,

Che tien negli occhj un doppio Sol sereno,

Che ha eburnea fronte, e gota delicata,

Che ha il naso in bel profil perfetto appieno,

Che ha amabil riso, e sì leggiadro il labro,

Che brilla del natìo puro cinabro.

 

Entro la bocca sonvi elette perle

In due simmetrici ordini divise,

S’innamora chiunque nel vederle;

Natura in farle ogni lavor vi mise.

Così vezzose, e peregrine averle

A verun altra Ninfa ella permise.

E poiché grazie anche più rare vanta,

Se tace alletta, e se ragiona incanta.

 

Bianco è il rotolo del collo, il sen di latte,

Giusta misura han le tornite braccia;

Son le candide mani assai ben fatte,

In cui di rosee vene appar la traccia,

Ma non eccede, neo non havvi, e intatte

Son l’altre membra, che il candore allaccia;

Agile, breve, e ritondetto è il piede,

Che nel danzar quasi neppu si vede.

 

Dello stesso anno è il sonetto scritto per il parto della signora D. Lucia Pilo-Boyl dei Marchesi di Putigari. Il sonetto è senza data e senza indicazione tipografica. I torchi sono riconducibili a quelli di Antonio Azzati, mentre per quanto riguarda la datazione è sicuramente il 1802, in quanto le decorazioni usate per la prima lettera sono differenti da quelle utilizzate nel 1800 e nel 1801, mentre sono identici agli ornamenti usati nel 1802 per la Descrizione del magnifico catafalco per la Regina di Sardegna Maria Clotilde Adelaide.

L’opera appena citata è l’ultima fatica stampata dal Rossetti in terra sarda. L’occasione gli viene data dai sontuosi funerali celebrati a Sassari, nella Chiesa Metropolita, per la defunta Regina di Sardegna Maria Clotilde Adelaide, volata in cielo all’età di 42 anni, il giorno 7 marzo, dopo una grave malattia.

Nata il 23 settembre 1759 nel castello di Versailles da Luigi Delfino di Francia e dalla principessa Maria Giuseppina di Sassonia, Maria Clotilde all’età di 16 anni andò in sposa al principe ereditario di Piemonte Carlo Emanuele. La vita di Maria Clotilde fu caratterizzata da un forte attaccamento alle cose dello spirito tanto che, nel 1808, sei anni dopo la sua morte, il papa Pio VII la dichiarò venerabile e introdusse la causa di beatificazione.

L’opera del Rossetti si compone di un elogio, dove il poeta evidenzia le virtù della defunta,seguito dalla descrizione del catafalco innalzato nella Chiesa Metropolita di Sassari, su disegno di Leonardo Pruner, direttore del Museo di Cagliari. L'esposizione fatta dal Rossetti è minuziosa e ricca di dettagli. Questa l’ultima parte della descrizione:«Terminava il surriferito quadrato con una quantità di faci, e vasi illuminati, in mezzo ai quali sorgeva la bellissima Urna Augusta, ai di cui quattro lati stavano altrettanti Genii, che dinotavano le quattro virtù Cardinali. Intorno all’Urna si vedevano dipinti i Stemmi Reali Gallico, Sardo, e Sabaudo. Un ampio velo nero si stendeva sul coperchio di quella, sotto di cui, ma propriamente nel mezzo, grandeggiava il Regio Diadema, e un Gran Baldacchino bruno pendeva al di sopra di questo…».

Chiude il volumetto un Sonetto dedicato alla memoria della venerabile:

 

Un Aquila Real da turbin fiero

Combattuta vid’io, e in mille affanni,

Come qualora il misero Nocchiero

Scansar non puote del Naufragio i danni.

 

Fra lampi, e tuoni, e pioggia, e l’aer nero

Pur non dispera; anzi animati i vanni,

Vola, squarciando il torbido emisfero,

Al sol che splende su gli eterei scanni

 

In quella fissa immobilmente i rai

Paga, e contenta in ogni suo desio,

Né più rammenta, che ha sofferto assai.

 

È l’Aquila ADELAIDE; il turbin rio

Era una vita di tristezze, e guai;

E il Sol, nel quale ora si specchia, è DIO.

 

Le glorie del Rossetti in terra sarda non finiscono qui. Nel tempio di Santa Caterina a Sassari, dove si sono radunati circa duemila giovani studenti, alla presenza del Principe Carlo Felice, per fare «pubblica lettura di varj componimenti in versi italiani e latini», invitato dal Principe stesso ad improvvisare, il Rossetti, davanti allo stupore ed all’incredulità dei presenti, verseggia in ottava rima, riepilogando tutte le poesie precedentemente ascoltate.

Una delle rare voci fuori dal coro è rappresentata dalla critica mossa dallo scrittore Carlo Calcaterra, il quale inserisce di diritto alcune poesie scritte dal Rossetti nel suo libro sulla storia della poesia frugoniana, ovvero quel componimentofatto di molte parole senza un’effettiva sostanza di pensieri.

 

Come riferisce lo stesso Rossetti, il soggiorno nell’isola Sarda dura due anni e mezzo. Sono stati anni di sicuro arricchimento personale e culturale che lo hanno portato a contatto con i principali personaggi della cultura sarda del tempo. Il Rossetti sarà sempre riconoscente a questa terra, e alcuni anni più tardi non si vergognerà di difenderla a spada tratta, come quando in alcune pagine de La Grotta (1804), scriverà: «Per altro alcuni Scrittori, ch’io per un certo riguardo non nomino, hanno dipinti i Sardi, come un popolo barbaro ed ignorante, ed incapace di esser commosso dai discorsi della filosofia, e della ragione...Io non ho scorto in quell’isola segno alcuno di barbarie in verun abitante». Sempre tra le annotazioni riportate ne La Grotta, ricorderà con piacere tutti gli illustri letterari con cui ha conversato, dissertato e condiviso la passione poetica: D. Diego Cadello, Arcivescovo di Cagliari, D. Gavino Murro, Vescovo prima di Bosa e successivamente di Alghero, D. Pietro Luigi Fontana, Giudice della Reale Udienza di Sassari, D. Giuseppe Belly, criminalista e avvocato fiscale, D. Giuseppe Valentini, reggente della città di Sassari.

 



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